mercoledì 9 aprile 2008

Petrocelli ha sapientemente cantato l'oralità del verso futurista - recensione di Antonello Morea

L’oralità del verso nell’interpretazione della poesia futurista di Antonio Petrocelli.

Miscela di teatro e poesia, nel tardo pomeriggio degli scorsi 5 e 6 aprile, a Dublino, presso lo University College Dublin (UCD) e l’Istituto Italiano di Cultura di Dublino, abbiamo assistito allo spettacolo di Antonio Petrocelli, "TOOMMM TOOO TOOM...PAROLE IN LIBERTÀ", recitazione e interpretazione di testi poetici facenti capo a importanti esponenti del Futurismo italiano, da Balla a Cangiullo, Depero, Papini e Marinetti. Ma prima di parlare dello spettacolo, vorrei fare una premessa su ciò cui esso ci ha portato a riflettere.
Per arcano paradosso, il primo manifesto del Futurismo, quello citato nelle antologie scolastiche di tutt’Italia, inizia con il verbo "cantare":
"Noi vogliamo cantare l'amor del pericolo".
Il verbo, poi, si ripete altre volte, a sottolinearne l’importanza e, ripetiamo, il paradosso:
"È il tramonto-direttore d'orchestra […]È lui che ferma a un tratto i timpani delle gamelle e dei fucili cozzanti, per lasciar cantare a voce spiegata sull'orchestra degli strumenti in sordina, tutte le stelle d'oro, ritte, aperte le braccia, sulla ribalta del cielo".
Il poeta, dice ancora Marinetti,
"Bisogna che […] si prodighi, con ardore, sfarzo e munificenza, per aumentare l'entusiastico fervore degli elementi primordiali.".
Questo perché i poeti futuristi devono, ancora una volta, cantare:
"Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro […] canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali […]", e così via.
Mi si chiederà: "ma di quale paradosso parli? Perché dovremmo leggerci un paradosso in queste parole?" Il paradosso nasce dalla contraddizione tra gli intenti distruttori e devastatori dei ponti col passato, con la tradizione secolare e accademica della poesia e dell’arte in generale a cui mira il futurismo ("un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia"; "Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d'ogni specie […]"; "Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo – […] il gesto distruttore dei libertari […]") e il suo tenace attaccamento al verbo "cantare". Il canto e, di conseguenza, l’oralità del verso, infatti, sono gli elementi della poesia degli albori, greca e latina, che proprio la modernità ha spesso tralasciato, schiacciando in un angolo d’ombra umida d’agonia il significato e l’intento comunicativo della poesia tradizionale. Proprio prendendo come modello l’avanguardia futurista, la poesia moderna, ignorando il verbo "cantare", si è, come dire, demusicalizzata, aggrinzendosi in angoli bui di non-senso, cerebralizzandosi all’inverosimile, facendo appello molto più all’intelletto che all’emozione e, dunque, dimenticandosi che musica e poesia furono confuse alla loro genesi.
L’aspetto stimolante, fascinoso e seducente dell’interpretazione della poesia futurista fatta da Antonio Petrocelli, avvenuta grazie all’efficace coordinamento tra Silvia Terribili, dell’Istituto Italiano di Cultura di Amsterdam e Bruno Busetti, direttore dell’Istituto dublinese, è stato proprio il poter assistere, per molti per la prima volta in assoluto, a quel "canto" di cui Marinetti parlava. Per tanti, siano essi esperti o semplici lettori, la poesia futurista ha sempre avuto una unica dimensione, quella visiva. Nelle scuole e nei licei non la si legge, la si guarda impressa sulla pagina, muta e inespressiva. Lo studente – e dubito che l’insegnante ne abbia una diversa comprensione – in quelle pagine del futurismo italiano non riesce a districarsi. Non hanno senso. Non sono, letteralemente, leggibili. Tutt’al più, come dicevo, sono guardabili come un quadro astratto e, ancora una volta, dunque, privo di senso. Quei segni, quelle indicazioni grafiche di ritmi e sonorità gutturali non hanno alcun significato se restano pure linee di inchiostro. Grazie alla splendida interpretazione generosamente regalataci da Petrocelli (attore di cinema, teatro e televisione, con un curriculum ricchissimo di esperienze e collaborazioni, dai film di Moretti, Bellocchio, Salvatores e Giordana a numerose produzioni teatrali italiane dei lavori di Sartre, Brecht e Jarry), per la prima volta quei segni guerrafondai e distruttori, quelle bombe ortografiche e calligrafiche di sillabe e parole in libertà, hanno assunto la loro reale forma. La forma che si nutre di ritmo e rumore, di metro e armonia propri. Certo, il ritmo che la poesia futurista impone non è quello aulico che la prosodia tradizionale modulava, ma un ritmo, diremmo, "in tempo reale", fatto d'accelerazioni, velocità, indugi e pause, dei toni concreti dell'eloquio classico e la simultanietà di una o più voci fra loro dìssone (come nella riuscitissima poesia di Balla, Macchina da scrivere, in cui Petrocelli ha coinvolto dodici persone del pubblico per eseguirla nella sua natura polifonica). Eppure, nonostante la sua natura di ritmo alterato rispetto a quello tradizionale, proiettato verso i lidi moderni del verso libero, l’interpretazione di Petrocelli ci ha mostrato intatti i nervi strutturali della poesia in quanto tale, ossia le sue qualità orali, comunicative, tipiche del canto e dell’arte della recitazione, che la consuetudine poetica moderna, in particolar modo quella che in Italia si è sviluppata tra gli anni 60 e 70, aveva tralasciato a favore dell’elemento cerebrale che rifugiva la comunicazione. Celebre la prefazione ai Novissimi, in cui Giuliani inneggia al
"montaggio asemantico dei segni" e alla pura "negazione della comunicazione esistente". Certo, prima ancora di Giuliani, fu lo stesso Montale a dare ragione ad un atteggiamento della poesia non incline alla "comunicazione": "Nessuno scriverebbe versi se il problema della poesia fosse quello di farsi capire". È breve il passaggio da questa affermazione alla conclusione triste riguardo al ruolo ridotto all’osso della poesia di oggi, così breve che ci appare del tutto logico e consequenziale il fatto che oggi la poesia non goda più di un vasto pubblico.
Dopo la performance di Petrocelli viene però naturale anche la speranza che un recupero non solo è in atto, ma c’è sempre stato. È più che altro una questione di prospettive. Il Novecento dovremmo quindi leggerlo sotto altre ottiche, forse. Probabilmente ci leggeremmo un instancabile tentativo di dialogo con la poesia tradizionale. Più che poesia "del" Novecento (riprendendo il celebre titolo di Mengaldo), dovremmo forse parlare di poesia "nel" Novecento. Più che sottolineare le distanze dal passato, dovremmo forse curarne le dinamiche di dialogo, sia che si tratti di un dialogo di netta opposizione, come nel caso del futurismo, sia che si tratti di un più piano dialogo di interscambio, come per esempio vediamo nella poesia di diversi, tantissimi mi viene da pensare, poeti del secolo appena trascorso, da Gozzano a Saba, da questi a Penna, da Pasolini a Bellezza, da Amelia Rosselli a Patrizia Valduga e così via.
Forse, veramente, l’anello mancante risiede nel recupero di un elemento senza il quale l’arte poetica perde, se non tutto, molto del suo senso: l’elemento orale.
I due pomeriggi regalatici da Petrocelli resteranno per tutti gli ascoltatori (non più semplici "lettori") a testimoniare il valore assoluto del verbo "cantare" usato da Marinetti e, con esso, la forza posseduta dalla parola poetica, potenziale espressivo assoluto. L’attore ci ha sapientemente "cantato" il dirompere dell’oralità futurista, che nasce dalla diversità della pronuncia, si forma sulla pronuncia, sul ripetere, esattamente come, quasi mille anni fa, già faceva, il più famoso poema epico della letteratura francese, la Chanson de Roland, in cui le riprese e le ripetizioni sono assai marcate perché non è fatta per essere letta in silenzio ma recitata, cantata, per l’appunto, ed ascoltata. Ecco quindi che l’oralità della poesia di Depero è esplosa nelle orecchie dell’ascoltatore, marcando i suoi campi comunicativi. L’interpretazione di Petrocelli la ha resa evidente, chiara, lucida, enucleandone le sperimentazioni sul corpo della parola, sul gesto, sulla traccia disegnata e sulla voce, sfociando in quell’universo dove i confini tra musica, teatro e poesia si sono ricondotti al loro stato primordiale di magma unico e indistinto, come il virare tra i colori dell’iride nello spettro visivo, mutevoli ed interscambiabili. La poesia si è trovata naturalmente commista al canto, alla musica, alla preghiera, al "mantra", direbbe Zanzotto.
Il pubblico si è visto proiettato nel clima euforico dell’inizio del secolo scorso e si è lasciato guidare dall’arte di Petrocelli come attraverso un itinerario turistico a metà tra il dotto e il divertito. I luoghi, nella fattispecie, per esempio, della Firenze di Papini o la Napoli descritta da Marinetti, si sono così mostrati nella frescezza delle loro essenze, con i loro rumori e i loro fiori, i loro umori di uomini vivi e i loro fantasmi che la parola poetica "detta", anche gridata, ha sottratto all’oblio e riconsegnato al mito. Sì il mito, nucleo pulsante della poesia di tutti i tempi, è esattamente il risultato della sottrazione della cifra "orale" dalla nozione, più piatta, di pagina stampata. Per chi assiste ad una lettura o semplicemente per chi legge in proprio a voce alta, la poesia risveglia il suo arcano legame col suono, riappropriandosi del suo elemento reale, il ritmo, la musicalità della parola, dove i significanti si fanno avanti non più spogli ma vestit di significati veri e propri.
La riflessione che se ne trae ha due punti importanti di arrivo. Il primo è che non è possibile concepire un progresso in poesia dimenticando le sue radici. Un dialogo, sia pure di totale opposizione come avveniva con il futurismo, è necessario. Il secondo è che la poesia ha bisogno di riacqustare una "voce" in tutti i sensi, particolarmente da noi in Italia. Soprattutto la modernità pare che si sia dimenticata che la Commedia dantesca era letta per strada, a Firenze, da Boccaccio e che attorno all’umanista nugoli di gente comune si creavano, attratti dal senso che la parola poetica suscitava in loro, dall’irresistibile nastro sonoro che in quell’istante, proprio perché fornito di un corpo e una voce reali, instaurava l’irrecidibile legame tra poeta e lettore, tra poesia e orecchio. Ciò di cui dovremmo riappropriarci, dunque, è l'oggetto stesso della poesia: non più tanto, e non più del tutto, l’asmatica lettura muta di una pagina, ma lo spazio dinamico d'un "teatro della parola", dove il poeta-istrione, o il lettore-istrione, interpreta le varianti infinite insite nei testi poetici di tutti i tempi, da quelli danteschi a quelli di Magrelli. Così soltanto, forse, la poesia potrebbe uscire dal cunicolo buio in cui agonizza e dal silenzio: fuori a guerreggiare di nuovo nel mondo, a "cantare l'amor del pericolo, l'abitudine all'energia e alla temerità".
Antonello Morea.